HIV

Come ci si infetta con l’HIV

Nel contesto attuale la più frequente modalità di trasmissione dell’HIV nel mondo ed anche in Occidente è il contatto sessuale frequente e promiscuo, cioè con tanti e diversi partner. In generale, il rischio di trasmissione nell’ambito di una relazione stabile tra un uomo ed una donna che abbiano solo rapporti vaginali guidati dall’affetto è molto basso. Una consuetudine sessuale di anni non esita in genere in trasmissione dell’HIV tra coniugi discordanti se non coesistano altre infezioni sessuali facilitanti, come Herpes genitale, Clamidia o Sifilide. Molto più rischiosi sono invece i rapporti sessuali che coinvolgano aree non protette naturalmente da mucosa adeguata, come il canale anale, o che siano compiuti con ritualità o dinamiche violente o impersonali in genere. Ogni rapporto che interessi la regione anale ha un rischio di trasmissione circa 100 volte più alto di un rapporto vaginale, che come tale è naturalmente protetto. Sono inoltre circa tre volte meno rischiosi i rapporti sessuali quando il partner maschile è circonciso.

L’infezione da HIV per via di trasfusioni di sangue od emoderivati non è più stata riportata nel mondo occidentale da oltre 15 anni, perché le fonti a rischio vengono individuate con pressoché assoluta certezza dagli attuali metodi di controllo. La microtrasfusione di sangue tramite scambio di siringhe contaminate rimane invece una modalità di trasmissione, molto importante in Russia e nell’Est Europa, mentre in Occidente l’efficienza dei servizi per le dipendenze ne ha pressoché azzerato la rilevanza.

La convivenza ordinaria (uso comune di stoviglie, posate, asciugamani, ed altri supporti della vita quotidiana) e le manifestazioni consuete di affetto (carezze, baci, abbracci) non sono mai stati riportati ad oggi come causa certa di trasmissione dell’HIV in alcun contesto scientifico o medico, e dopo 30 anni di studi su questa infezione possiamo ritenere che la sicurezza della normale intimità affettiva e familiare sia piena.

Analogamente senza rischi aggiunti di trasmissione sono le punture d’insetto in ambiti dove viva una persona infetta, poiché l’intestino degli insetti vettori distrugge rapidamente l’HIV. Altrettanto sicura è la convivenza con animali domestici infetti, dal momento che i virus dell’immunodeficienza delle altre specie animali non possono infettare l’uomo (con la sola esclusione dei virus che infettano le scimmie).

Come si effettua la diagnosi di infezione da HIV

Ci sono molte modalità con cui una persona può essere studiata per sapere se è infetta o no dal virus HIV. Alcuni metodi usano la saliva, la cui raccolta non richiede di effettuare un prelievo di sangue. La modalità più sicura e completa è però rappresentata da un prelievo di sangue periferico di pochi millilitri (3-5 in genere), dal quale viene separata la quota senza cellule, cioè il siero; sul siero è ricercata la presenza degli anticorpi anti HIV. La specificità del metodo che sarà usato nel progetto della Regione Abruzzo, cioè la probabilità che un risultato positivo sia effettivamente positivo, è superiore al 98% nella prima fase di screening; ciò vuol dire che solo un positivo su cento può essere falso. La sensibilità del metodo è invece praticamente perfetta già un mese dopo una esposizione a rischio. Ciò vuol dire che la possibilità che un siero risulti negativo se invece la persona è infetta è praticamente nulla. Tutti i sieri che risulteranno positivi per HIV nell’ambito dell’azione di Screening saranno confermati mediante un secondo metodo. Sui campioni di siero con anticorpi per HIV verrà cioè cercato il DNA del virus con un metodo adeguato per tale ricerca. Dopo tale eventuale conferma la certezza dell’informazione sarà piena, e solo a questo punto si procederà ad informare la persona interessata.

Poiché sul sangue prelevato per lo screening dell’HIV possono essere ricercati anche gli anticorpi per i virus dell’Epatite B e C e per la Sifilide  con un piccolo costo aggiuntivo, la Regione Abruzzo ha autorizzato sperimentalmente anche tale azione, che verrà effettuata con metodiche parallele e sovrapponibili in termini di sicurezza, sensibilità e specificità.

Le conseguenze precoci e tardive dell’infezione da HIV

L’infezione con il virus HIV causa prioritariamente una progressiva riduzione del numero e della qualità dei linfociti del tipo “CD4”, che sono essenziali per una buona regolazione ed un corretto funzionamento del nostro sistema immune, cioè di quel complesso di meccanismi che in modo meraviglioso difende il nostro organismo nella interazione con i microorganismi residenti nel nostro corpo o provenienti da mondo esterno. Quando i linfociti CD4 sono divenuti francamente insufficienti a svolgere bene tutte le loro funzioni di difesa e coordinamento, il corpo della persona infetta diviene incapace di difendersi dalla continua aggressione che gli deriva da tutti i fronti e finisce per sviluppare una serie di infezioni persistenti da virus e batteri, che progressivamente crescono in numero ed intensità fino a causare la morte dell’individuo infetto da HIV. La fase grave della malattia da HIV prende pertanto il nome di sindrome da immunodeficienza acquisita e, nel nostro ambiente europeo, è caratterizzata più frequentemente da pneumocistosi polmonare, encefalite da toxoplasma, leishmaniosi viscerale severa, parassitosi intestinali che causano severa perdita di peso corporeo, malattia disseminata da citomegalovirus e tubercolosi atipica extrapolmonare. In generale, tra l’ingresso del virus HIV nel nuovo infetto e l’inizio della fase delle infezioni opportunistiche passano tra 10 e 15 anni di vita pressoché normale, durante la quale l’infetto mantiene una normale attività e generalmente diffonde ad altri il virus HIV.

In realtà, già nei primi mesi ed anni dall’inizio dell’infezione la persona che vive con HIV sviluppa una maggiore tendenza a manifestare eventi cardiovascolari precoci, perché il virus HIV attiva le cellule che pavimentano tutti i vasi sanguigni del nostro organismo, specie quelli di piccolo calibro, aumentando il rischio di eventi acuti da occlusione vascolare. In generale, è stato stimato che l’infezione da HIV dopo 10 anni circa determini un invecchiamento di 7 anni in più dei vasi degli infetti rispetto ai non infetti. Questa infiammazione dei vasi sanguigni si traduce talora anche in una precoce riduzione della funzione renale rispetto alla popolazione generale. Un altro effetto precoce della infezione da HIV è rappresentato da una maggiore e diversa gravità di alcune importanti e frequenti coinfezioni, come quella da virus epatite C, virus epatite B e tubercolosi.

Che cosa succede quando facciamo diagnosi di infezione da HIV

La diagnosi della infezione da HIV in una persona che non ha ancora alcun sintomo rappresenta oggi una delle più importanti azioni di prevenzione in medicina. Nei paesi occidentali, la prevalenza dell’infezione da HIV è stata misurata in più ambiti  tra lo 0.2 e lo 0.8%, il che significa che ogni milione di persone che vivono tranquille la propria condizione di benessere nell’età media, circa 3000 persone sono infette da HIV e circa il 40% di questi infetti non è consapevole del proprio stato d’infezione, contribuendo al 60% circa delle nuove trasmissioni di HIV per ogni anno. I nuovi casi di infezione sono stati stimati in circa 4000 per anno in Italia negli ultimi anni.

L’individuazione precoce delle persone con infezione da HIV che non sanno di essere infette non avendo alcun sintomo rilevante permette di avviare la terapia contro il virus prima della comparsa dei sintomi. La terapia in questa fase risulta oggi molto semplice da assumere (1 o poche compresse al dì in 1 o 2 assunzioni quotidiane) e molto ben tollerata, tanto che la stragrande maggioranza di quelli che sono curati assumono effettivamente tutte le dosi prescritte senza importanti effetti collaterali.

Dalla costante assunzione della terapia antiretrovirale conseguono due fatti estremamente importanti e coincidenti: innanzitutto, quasi il 100% dei trattati (una percentuale davvero insolita in medicina) non perde più cellule CD4, anzi comincia a recuperarle, e non sviluppa più la fase di immunodeficienza acquisita grave; la vita delle persone trattate, in altri termini, diviene praticamente identica in termini di salute fisica e psichica rispetto a quella dei non infetti. In secondo luogo, poiché la replica del virus viene bloccata dai farmaci assunti nel sangue ed in tutti i tessuti, anche se in modo non completo e non definitivo, le persone che assumono con regolarità la terapia non possono più trasmettere l’infezione da HIV per via sessuale. Questa seconda conseguenza riduce fortemente una quota rilevante di trasmissione del virus, contribuendo a controllare la diffusione dell’epidemia da HIV.

Pertanto potremmo sintetizzare dicendo che quando facciamo diagnosi precoce di un infetto da HIV senza sintomi abbiamo la pressoché totale certezza di aver prevenuto in lui la progressione dell’infezione verso l’AIDS, e la ragionevole certezza di avergli restituito un’attesa di vita normale rispetto ai non infetti. Inoltre, se tutti gli infetti residenti in una zona scoprissero precocemente la propria condizione, in quella zona non potrebbe più esserci trasmissione di HIV e quindi verrebbe prevenuta la stragrande maggioranza delle nuove infezioni.

Come si effettua la terapia antiretrovirale

Dopo la diagnosi, ogni persona infetta da HIV viene presa in carico da una delle strutture deputate a questo scopo, ovvero una delle 150 Unità Operative di Malattie Infettive e Terapia Antiretrovirale, presenti e ben distribuite sul territorio nazionale. Tutte le prestazioni sono gratuite, ed a differenza di altri Stati Occidentali l’Italia non conosce al momento sostanziali limitazioni per l’accesso. Ne consegue che il tasso di persistenza nella cura osservato in Italia negli anni recenti è tra i più alti se non il più alto del mondo. A ciascun nuovo paziente arruolato con infezione da HIV vengono prescritti tre farmaci antiretrovirali in associazione. La potenza dei farmaci attualmente disponibili è tale che entro 3-6 mesi oltre il 90% dei trattati non ha più replica attiva di HIV rilevabile nel proprio sangue periferico. L’effetto soppressivo può essere poi mantenuto nel tempo anche con combinazioni di due farmaci o, in casi selezionati, con un solo farmaco, purchè adeguatamente potente ed assunto in modo completo e continuativo. A semplificare tutto il processo, è oggi disponibile una serie ampia e crescente di coformulazioni di 2, 3 ed anche 4 farmaci antiretrovirali in una sola compressa, da assumere per lo più una sola volta al giorno. Si potrebbe pertanto concludere che il controllo durevole della salute di una persona con infezione da HIV scoperta quando il sistema immune è ancora ben funzionante è ormai una situazione agevole da gestire nell’immediato e nel medio e lungo termine. In particolare in Italia il successo delle cure approccia la totalità dei trattati che restano in stabile relazione col centro che li ha presi in carico alla diagnosi o con uno degli altri 150, presso il quale ogni assistito può far richiesta di trasferimento, in un regime di totale libertà di cura. In un paragone consapevolmente semplicistico, si può dire che la diagnosi di infezione da HIV determina l’avvio di un processo assistenziale molto ben consolidato ed omogeneamente gestito sul territorio nazionale, con un’attesa di efficacia e successo molto più alta che per un paziente cui nella stessa sede venga parallelamente diagnosticato il diabete mellito.

Che cosa un infetto da HIV non dovrebbe mai fare

Sospendere la terapia antiretrovirale. È infatti dimostrato ormai in modo conclusivo che le interruzioni della terapia determinano un danno alla salute prima che si determini una sensibile diminuzione dei linfociti CD4. Una volta avviata, la terapia antiretrovirale dovrà essere continuata, per quanto semplificata e de-intensificata, per tutta la vita naturale dell’infetto.

Assumere farmaci o droghe che interagiscano con i farmaci antiretrovirali assunti. Sono infatti molti i farmaci che possono determinare una riduzione del livello nel sangue e nei tessuti dei farmaci antiretrovirali, in tal modo permettendo al virus in molti casi di riemergere dalla latenza con varianti selezionate per l’essere resistenti ai farmaci assunti. Tra i farmaci più a rischio d’interazione sta l’Erba di san Giovanni (Ipericum), un antidepressivo naturale molto diffuso in erboristeria, capace di ridurre significativamente il tasso plasmatico della più importante classe di farmaci antiretrovirali, ovvero gli inibitori della proteasi di HIV.

Cosa accade quando non si coglie l’occasione per la diagnosi precoce di HIV

In assenza di una diagnosi che permetta l’avvio della terapia antiretrovirale prima della destrutturazione del sistema immune, la diagnosi di HIV diviene tardiva e legata all’insorgenza dei sintomi delle infezioni opportunistiche. I pazienti che giungono alla diagnosi di infezione da HIV per la prima infezione opportunistica grave, con sistema immune destrutturato, presentano minori aspettative di vita rispetto a quanti siano diagnosticati asintomatici.

Per quanto riguarda il contesto locale, si ritiene oggi che la frazione inconsapevole della propria condizione di infezione da HIV possa essere particolarmente elevata nella Regione Abruzzo, verosimilmente sino al 45%. Una stima recentemente condotta presso la U.O.C. di Malattie Infettive di Pescara ha documentato che dal 2006 la presentazione tardiva riguarda il 50-75% delle nuove diagnosi; dal primo gennaio del 2006 al dicembre 2011, le nuove diagnosi di HIV sono state circa 150 e quelle avanzate oltre il 65% (Ursini et al., 2012). I pazienti con infezione da HIV sintomatica ed avanzata hanno presentato in tale casistica una mortalità rilevante nei primi 6 mesi (10%) ed un recupero immune più lento e incompleto dopo l’avvio della terapia antiretrovirale. L’assistenza a tali pazienti è stata inoltre gravata da costi diretti ed indiretti elevati, e da una protratta occupazione delle strutture di ricovero ordinario. Per converso, tra gli infetti diagnosticati con più di 200 CD4 non si è verificato nessun decesso ed il tasso di soppressione virologica è prossimo al 100% nei trattati (Ursini et al., 2012).

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